MIMMO DALLAGO

Caro Mimmo, i colleghi vorrebbero sapere qualcosa in più di te...
“…siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo”. Desidero iniziare così, con la lettera/testamento che Ernesto Che per me una delle più luminose figure del XX secolo, scrisse ai propri figli. Sono nato a Pergola, un piccolo paesino nella provincia di Pesaro, 47 anni fa. Cresciuto in una famiglia numerosa da bambino ero molto vivace e ricordo con allegria l’organizzazione delle fughe dall’asilo, dove il ghiacciolo era un diritto negato, e gli scioperi contro il riso in bianco alle scuole elementari. Non ho mai avuto paura di far valere i principi in cui credo, primi fra tutti la libertà e l’uguaglianza, anche quando questo avrebbe potuto significare farsi aprire l’arcata sopraccigliare dal manganello di un signore in divisa. Durante il servizio civile, presso centri di accoglienza e ospizi, sono riuscito a dare la metà degli esami di un corso universitario, indirizzo economico, che ho terminato poco dopo. In quegli anni sono diventato anche il primo istruttore d’alpinismo della mia provincia, nonostante le diffidenze dei severi istruttori trentini e valdostani verso i “terroni”, e anche verso i capelloni. Quando negli anni 90 in Jugoslavia è scoppiata la guerra sono partito come operatore umanitario per una ONG e sono ritornato in Italia dopo circa 3 anni.
Come e quando hai iniziato la tua esperienza in Carifac?
Dopo alcuni lavori precari, in montagna o in fabbrica, e i salti mortali per pagare le bollette, nel 1996 ho iniziato a lavorare all’Ufficio Marketing della Banca Popolare di Ancona. Poco dopo sono arrivato 2° al concorso regionale delle BCC per poi approdare alla Carifac.
Quali sono i cambiamenti più importanti che hai notato in questi ultimi anni?
Ho sempre pensato alla Carifac come a una banca al servizio della borghesia industriale fabrianese, con tutti i pregi e i difetti che ciò comporta. La realtà in cui lavoriamo non ha resistito ai morsi della crisi e la sorte della banca non ha potuto che essere una: la cessione a un acquirente, nel nostro caso Veneto Banca, con il conseguente addio all’autonomia, al legame esclusivo con il territorio e quegli slogan con cui eravamo cresciuti. Più che di cambiamenti preferisco definirla una rivoluzione: Carifac è diventata terra di conquista.
Come mai ti sei avvicinato al sindacato?
La mia storia personale mi ha portato da subito ad essere attivo nel sindacato, ma solo nel 2006 ho iniziato a impegnarmici seriamente. Nel periodo che ha preceduto l’acquisizione effettiva da parte di Veneto Banca, però, sono molti coloro che hanno avuto la sensazione che diversi sindacalisti allora presenti in azienda abbiano preferito non svolgere il ruolo che compete loro in cambio di favori strettamente personali (promozioni, assunzioni di figli, ecc.). Dopo una pausa di riflessione, quando la FABI è riuscita ad entrare in Carifac non ho avuto dubbi e mi sono messo nuovamente a disposizione del sindacato e dei colleghi.
Che ambiente hai trovato nella FABI del Gruppo Veneto Banca?
La FABI è un sindacato autonomo focalizzato sulla difesa della nostra categoria, negli ultimi anni, sempre più sotto attacco. Nella FABI ho riscontrato una carica etica sconosciuta. Naturalmente anche la FABI del Gruppo Veneto Banca, come ogni altra organizzazione, ha pregi e difetti. C’è molta voglia di fare e di coinvolgere, di far partecipare, soprattutto i colleghi tra cui, naturalmente, coloro da cui abbiamo ricevuto il mandato. Dopo ogni discussione, accesa o meno che sia, alla fine c'è però sempre qualcuno a cui tocca l'ingrato compito di fare sintesi e qualche volta le decisioni prese possono anche non riuscire ad accontentare tutti quanti. Quel che conta è non demordere e non sottrarsi al confronto.
Cosa impedisce ai colleghi di Carifac di esercitare serenamente i loro diritti?
La storia e la tradizione sia aziendale che locale. I colleghi si sono probabilmente assuefatti a un sistema basato, a più livelli, su compromessi, accomodamenti, accordi sottobanco.
Cosa vorresti ancora dire ai tuoi colleghi?
Mio nonno mi diceva che molti lavoratori, nelle miniere di Cabernardi, avevano inciso nel manico del piccone o sul casco questo motto “solo l’unità dei lavoratori ti salverà dai crolli e dal padrone”. Cari colleghi: controllate, incalzate, partecipate all'azione del vostro sindacato, ma soprattutto siate uniti! Ho iniziato questa intervista con la frase di un rivoluzionario e voglio finire con quella di Hélder Pessoa Câmara, un arcivescovo cattolico e teologo brasiliano: “Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.”
da Parola alla Fabi - Febbraio 2013
“…siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo”. Desidero iniziare così, con la lettera/testamento che Ernesto Che per me una delle più luminose figure del XX secolo, scrisse ai propri figli. Sono nato a Pergola, un piccolo paesino nella provincia di Pesaro, 47 anni fa. Cresciuto in una famiglia numerosa da bambino ero molto vivace e ricordo con allegria l’organizzazione delle fughe dall’asilo, dove il ghiacciolo era un diritto negato, e gli scioperi contro il riso in bianco alle scuole elementari. Non ho mai avuto paura di far valere i principi in cui credo, primi fra tutti la libertà e l’uguaglianza, anche quando questo avrebbe potuto significare farsi aprire l’arcata sopraccigliare dal manganello di un signore in divisa. Durante il servizio civile, presso centri di accoglienza e ospizi, sono riuscito a dare la metà degli esami di un corso universitario, indirizzo economico, che ho terminato poco dopo. In quegli anni sono diventato anche il primo istruttore d’alpinismo della mia provincia, nonostante le diffidenze dei severi istruttori trentini e valdostani verso i “terroni”, e anche verso i capelloni. Quando negli anni 90 in Jugoslavia è scoppiata la guerra sono partito come operatore umanitario per una ONG e sono ritornato in Italia dopo circa 3 anni.
Come e quando hai iniziato la tua esperienza in Carifac?
Dopo alcuni lavori precari, in montagna o in fabbrica, e i salti mortali per pagare le bollette, nel 1996 ho iniziato a lavorare all’Ufficio Marketing della Banca Popolare di Ancona. Poco dopo sono arrivato 2° al concorso regionale delle BCC per poi approdare alla Carifac.
Quali sono i cambiamenti più importanti che hai notato in questi ultimi anni?
Ho sempre pensato alla Carifac come a una banca al servizio della borghesia industriale fabrianese, con tutti i pregi e i difetti che ciò comporta. La realtà in cui lavoriamo non ha resistito ai morsi della crisi e la sorte della banca non ha potuto che essere una: la cessione a un acquirente, nel nostro caso Veneto Banca, con il conseguente addio all’autonomia, al legame esclusivo con il territorio e quegli slogan con cui eravamo cresciuti. Più che di cambiamenti preferisco definirla una rivoluzione: Carifac è diventata terra di conquista.
Come mai ti sei avvicinato al sindacato?
La mia storia personale mi ha portato da subito ad essere attivo nel sindacato, ma solo nel 2006 ho iniziato a impegnarmici seriamente. Nel periodo che ha preceduto l’acquisizione effettiva da parte di Veneto Banca, però, sono molti coloro che hanno avuto la sensazione che diversi sindacalisti allora presenti in azienda abbiano preferito non svolgere il ruolo che compete loro in cambio di favori strettamente personali (promozioni, assunzioni di figli, ecc.). Dopo una pausa di riflessione, quando la FABI è riuscita ad entrare in Carifac non ho avuto dubbi e mi sono messo nuovamente a disposizione del sindacato e dei colleghi.
Che ambiente hai trovato nella FABI del Gruppo Veneto Banca?
La FABI è un sindacato autonomo focalizzato sulla difesa della nostra categoria, negli ultimi anni, sempre più sotto attacco. Nella FABI ho riscontrato una carica etica sconosciuta. Naturalmente anche la FABI del Gruppo Veneto Banca, come ogni altra organizzazione, ha pregi e difetti. C’è molta voglia di fare e di coinvolgere, di far partecipare, soprattutto i colleghi tra cui, naturalmente, coloro da cui abbiamo ricevuto il mandato. Dopo ogni discussione, accesa o meno che sia, alla fine c'è però sempre qualcuno a cui tocca l'ingrato compito di fare sintesi e qualche volta le decisioni prese possono anche non riuscire ad accontentare tutti quanti. Quel che conta è non demordere e non sottrarsi al confronto.
Cosa impedisce ai colleghi di Carifac di esercitare serenamente i loro diritti?
La storia e la tradizione sia aziendale che locale. I colleghi si sono probabilmente assuefatti a un sistema basato, a più livelli, su compromessi, accomodamenti, accordi sottobanco.
Cosa vorresti ancora dire ai tuoi colleghi?
Mio nonno mi diceva che molti lavoratori, nelle miniere di Cabernardi, avevano inciso nel manico del piccone o sul casco questo motto “solo l’unità dei lavoratori ti salverà dai crolli e dal padrone”. Cari colleghi: controllate, incalzate, partecipate all'azione del vostro sindacato, ma soprattutto siate uniti! Ho iniziato questa intervista con la frase di un rivoluzionario e voglio finire con quella di Hélder Pessoa Câmara, un arcivescovo cattolico e teologo brasiliano: “Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.”
da Parola alla Fabi - Febbraio 2013