C’era una volta un colombo selvatico che aveva il nido nel cuore della foresta, fra i tronchi slanciati di grandi alberi solitari. Di lassù vedeva salire il fumo di una fattoria nella quale abitavano alcuni piccioni domestici, suoi lontani parenti. Qualche volta ne vedeva due sul comignolo e scambiava quattro chiacchiere con loro. Un giorno il discorso cadde sulla difficoltà e le vicissitudini della vita. |
Tornato al nido, il colombo cominciò a riflettere e, in breve, concluse che la cosa migliore era che anch’egli cominciasse a raccogliere provviste da mettere al sicuro in qualche posto. Il mattino seguente si alzò più presto del solito e s’impegnò talmente nella ricerca del cibo che neppure ebbe il tempo di mangiare. Mese dopo mese accumulava un bel po’ di provviste, le nascondeva in un posto che gli pareva sicuro, ma quando tornava a ispezionarle erano scomparse. Guardandosi intorno, però, non notava alcuna diminuzione nelle risorse che ogni giorno gli si offrivano. Ogni giorno trovava da mangiare come prima, ma si saziava un po’ meno per quella sua smania di ammassare provviste. Com’era cambiato: pur non trovandosi affatto in ristrettezze, si era impadronita di lui l’ossessione di che cosa avrebbe mangiato domani. Aveva perso il sonno, e aveva trovato la preoccupazione delle cose materiali. Viveva ormai nell’angoscia. Le sue piume avevano perduto colore, il suo volo leggerezza. Le sue giornate trascorrevano in vani tentativi di far provviste per il futuro, i suoi sogni erano diventati progetti irrealizzabili e chimerici. Non sapeva più cosa fosse la gioia, ed era persino divenuto geloso dei piccioni della fattoria. Si era messo in quella trappola in cui nessun cacciatore poteva catturarlo, nella trappola in cui solo gli esseri liberi possono cadere: la preoccupazione del domani.
Capiva perfettamente che l’angoscia si era impadronita di lui, e cercava di ragionare.
Ma lo faceva in modo irragionevole: “Il mio destino non è irragionevole, non chiedo niente di impossibile. Non pretendo di diventare come il ricco contadino, ma solo come uno dei suoi ricchi piccioni’.
Un giorno prese il volo verso la fattoria e si posò sul camino accanto ai due piccioni. Poi, avendo scorto un buco, ne concluse che era quello il passaggio per il granaio, e vi si introdusse. Ma la sera, il padrone venne e chiuse la piccionaia. Scoperto l’intruso, lo isolò in una piccola gabbia, e il giorno dopo lo uccise, “liberandolo” così da ogni preoccupazione del domani.
Se si fosse accontentato della sua condizione di uccello del cielo avrebbe continuato ad abitare, forse nell’incertezza, presso la sua dimora, tra i grandi alberi solitari la cui malinconia è alleviata dal tubare dei colombi.